In ricordo di don Antonio Villa, primo amico de La Zolla

14 Set In ricordo di don Antonio Villa, primo amico de La Zolla

 

Oggi, 14 settembre 2022 è salito in Paradiso don Antonio Villa, il sacerdote che per primo ha ospitato nei locali della sua parrocchia di San Babila la nascente Zolla, nell’anno 1973-1974.

Come racconta lui stesso in un’intervista riportata nel libro “Il lunedì è il giorno più bello”, pubblicato per i 30 anni della nostra scuola: ”Ho fatto l’unica cosa che mi veniva in mente di fare, e cioè rispondere al bisogno di un gruppo di famiglie: è come quando si deve concimare il terreno. Quando devi concimare compi una operazione precisa, devi scegliere il concime… ma questo non è la causa di quello che verrà dopo. Quello che viene dopo dipende da altri, da come altri utilizzano quello che hai concimato”.

Profondamente grati per come “ha concimato” il nostro terreno, per la cura avuta per il seme da cui è nata e cresciuta la nostra scuola, chiediamo a tutti voi di ricordarlo nelle vostre preghiere.

Riportiamo qui di seguito l’intervista a don Antonio Villa raccolta nel libro Penso che il lunedì è il giorno più bello. La Zolla: trent’anni di scuola libera a Milano. (Itaca 2004)

 

Un prete poetico

Quando parla si schermisce e si entusiasma, tenero e spiritoso, educatore per passione prima che per mestiere: don Antonio Villa oggi è rettore di una scuola media a Tarcento in Friuli, una scuola libera e gratuita da lui stesso fondata subito dopo il terremoto del 1976. 

Ma la sua storia si intreccia, si dagli anni ’70, con il mondo delle scuole libere. Da quando ospitò nella centralissima parrocchia di San Babila a Milano, dov’era coadiutore, cinque bambini e una maestra in prima elementare. 

 

Parlando degli inizi della Zolla, tutti la indicano come uno dei protagonisti di quel primo, avventuroso anno…

A dir la verità, a me sembra di non aver fatto niente. Mi fa piacere che, dovendo scrivere un libro sulla storia della Zolla, veniate a parlare con me, a cercare qui un inizio. 

Significa che, senza averlo saputo o voluto, sono stato importante, interessante per alcuni genitori. Ma questo non sono io a doverlo dire. Ho solo cercato di aiutare, con gusto e con piacere, degli amici che avevano una necessità e, pensandoci a trent’anni di distanza, è stata soprattutto un’occasione per me. 

 

Ma, concretamente, come si è trovato coinvolto con la nascita della scuola? 

A dir la verità io sono stato coinvolto nella “preistoria” della scuola elementare, nata nell’anno scolastico ’73-’74. La preistoria erano cinque famiglie che volevano trovare una sistemazione scolastica per i loro figli. Ricordo i Bianchi, i Veronesi, i Mineo, i Bertacchi… Uno di loro, papà Bertacchi, mi aveva raccontato della loro preoccupazione: volevano fare una scuola e, pur avendo già la maestra, non riuscivano ad avviarla. Allora io dissi: “Siete tutta gente che lavora qui in centro e, se il problema è solo il posto, facciamola qui”. Ho fatto l’unica cosa che mi veniva in mente di fare, e cioè rispondere al bisogno di un gruppo di famiglie. Mi spiego: è come quando si deve concimare il terreno. Quando devi concimare compi un’operazione precisa, devi scegliere il concime ecc. ma questo non è la causa di quello che verrà dopo. Quello che viene dopo dipende da altri, da come altri utilizzano quello che tu hai concimato.

 

Ed è stato solo l’inizio…

Nella parrocchia dov’ero sacerdote, in San Babila, il posto c’era: bisognava solo dargli una “sistematina”. Con alcuni amici, che ospitavo, abbiamo imbiancato e rinfrescato. Le signore della parrocchia si sono attivate per comperare i banchi ed è venuta fuori un’auletta splendida. Mi ricordo che i banchi erano del negozio “De Padova”, uno dei più belli di Milano, provvidenzialmente situato all’angolo di Corso Venezia. Costavano tantissimo, ma erano un dono.

Il primo anno ebbe inizio: tutte le mattine i bambini arrivavano, accolti dalla maestra Luisella. Quattro ore di scuola, poi tutti a mangiare da don Villa che, subito dopo pranzo, li riportava a casa. Così fino alla fine dell’anno scolastico. 

 

C’è un episodio che l’ha colpita in modo particolare? 

La morte della maestra Luisella. Altri sapranno parlare di lei meglio di me, ma quello che colpiva era la padronanza di questa ragazza in ogni situazione. A me sembrava anche un po’ malinconica e, se penso che – poco dopo – è morta improvvisamente, mi viene da dire che il Signore l’aveva già ben preparata, ben istruita. Impressionava la sua personalità: non era professionalità, un saper fare, perché era la prima volta che faceva scuola. Per i bambini Luisella era un avvenimento. 

Dai ricordi di don Villa escono scene di vita quotidiana, l’improbabile convivenza tra un giovane sacerdote, i suoi amici e cinque birbe di sei anni. 

Quando venivano su in casa si azzannavano fra di loro come fratelli e sorelle. Né io né i miei amici avevamo esperienze di rapporto con bambini di sei anni e all’inizio eravamo un po’ sconvolti: come mai i nostri amici, loro genitori, allevavano figli così selvaggi? Mi sembravano peggio degli altri. Dopo, invece, ci siamo accorti che era una selvaggità non pericolosa. Le cose che si dicevano tra loro non lasciavano nessuno strascico. Ricordo la Veronesi che voleva tagliare il cuore a fette alla Bertacchi e la Bertacchi che, prima di mangiare, doveva fare una scenetta presentandosi come Mary Meccatis. Era per lei l’equivalente dell’Angelus. Per farsi notare, la Maria diceva spesso di avere mal di pancia. Si metteva nel mio lettone e guariva miracolosamente. Un giorno, dopo una guarigione, mi ha detto: “Mentre ero sdraiata credevo di essere sola, ma poi ho guardato il cielo e ho capito che non ero sola”. 

Quando li portavo a casa, per andare a Buccinasco, seguivo i Navigli, ma non prendevo mai l’Alzaia, perché era troppo dissestata. 

Ma i bambini insistevano per cambiare percorso e un giorno abbiamo fatto l’Alzaia: loro l’hanno trovata romantica. Da allora facevamo sempre la strada romantica ed io chiedevo: “Cosa sapete voi di cosa vuol dire romantico?”

 

Quello che ha fatto ha lasciato un segno su di lei? 

La scoperta che il rapporto tra il grande e il piccolo non è meccanico. È un rapporto da creare, da inventare. E il grande potrebbe non essere capace di farlo. Per esempio, c’era il problema di cosa fare con i bambini dopo il pranzo. Era un momento drammatico perché noi adulti eravamo un po’ abbioccati. I bambini invece erano nervosi perché si avvicinava il momento della partenza. Così abbiamo deciso di raccontare loro una storia. Avevano provato in diversi e, quando è arrivato il mio turno, mi sono accorto che non sapevo raccontare. Questo mi ha impressionato e ho provato a fare il furbo. Ho preso la Bibbia e ho iniziato a leggere la storia di Giuseppe, ma i bambini sono rimasti in silenzio solo il tempo di capire cosa stessi facendo; dopo un minuto erano di nuovo scatenati. Allora la Luisella mi ha chiesto: “Ma perché leggi?”, “Come, perché leggo? Se non leggo, cosa devo fare per raccontare una storia?”: Luisella chiedeva una maggiore verità, una naturalezza molto matura. Ma come si fa ad essere naturali e maturi? Ci vuole un mestiere non camuffato, non millantato, non una professionalità ma un amore capace di raccontare. Lei voleva solo che io fossi me stesso. Ero sempre più imbarazzato e a disagio. Un giorno, mentre stavo parlando, è successo qualcosa, un particolare apparentemente insignificante come quando qualcuno bussa e tutti si voltano a guardare verso la porta. Ero sempre più furente: “Ma come, sto raccontando una storia e questi bambini si voltano a guardare chi entra? Come mai li colpisce di più la banalità di qualcuno che entra da una porta invece della storia di San Giuseppe?”

Poi ho pensato: forse si voltano perché accade qualcosa. Questo voleva dire Luisella: fai accadere qualcosa, diventa tu per loro un avvenimento così stanno attenti a te come adesso si voltano verso la porta. 

Allora ho iniziato a pensare e mi sono detto che bisognerebbe riscrivere questa storia, senza tradirla… in effetti mancano dei dettagli: per esempio nella storia può essere scritto che qualcuno è entrato nella stanza, ma non che ha bussato alla porta. Comincia invece a dire “toc toc”, “permesso”: anche se nella Bibbia non è scritto così, è ovvio che è successo. Racconta questo, mi son detto. La “storia della salvezza” si lasciava vestire di fantasia, senza intaccare il fatto accaduto e raccontato nella scrittura. 

Sono nate così le “storie” di don Villa: «Queste “storie” sono nate perché un adulto fu costretto da una maestra di nome Luisella a trattenere con qualche racconto la vivacità di cinque piccoli bambini di nome Nicoletta, Maria, Emanuela, Pietro e Daniele. L’adulto si rifugiò nell’unico luogo che conosceva pieno di “sotire” …».

Luisella mi chiese di riscrivere la storia che c’è nella Bibbia inserendo i dettagli che sono sottintesi, non scritti perché non necessari, ma accaduti.

Le storie nacquero dalla necessità di intrattenere i bambini con un racconto che li coinvolgesse in modo più effervescente del testo sacro. Sono partito dal testo sacro perché, lì per lì, non avevo un’altra fonte alla quale attingere. Questo è stato il compito: solo un accompagnare quotidiano alcuni amici genitori nell’educare e istruire i figli.